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LA STORIA DEL DOCUMENTO. Diritti umani: il codice condiviso della dignità

Luca Geronico martedì 9 dicembre 2008
Due anni di lavoro per scrivere i trenta articoli e il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani: un’esigenza espressa sin dalla prima sessione delle Nazioni Unite e sancita il 10 dicembre del 1948. Un lavoro appassionante, un codice della dignità umana come incastonato fra le macerie della seconda guerra mondiale e nuove tensioni del mondo bipolare di Yalta. Fu la sfida di voler scrivere i principi di una nuova convivenza fondata sulla pace, sulla giustizia e sul rispetto dalla libertà e della vita a guidare l’idealismo di Eleanor Roosevelt, la vedova di Franklin Delano, presidente e indiscussa leader del Comitato di stesura composto da 18 membri fra cui il francese René Cassin, il libanese Charles Malik, il cinese Peng Chung Chang.La risoluzione 217 dell’Onu venne così approvata a Parigi dai 51 Stati allora presenti nel 1948: quel voto è la fonte di nove trattati fondamentali sui diritti umani riconosciuti «se non in toto, almeno singolarmente» da quasi tutti i 192 Stati membri delle Nazioni Unite. Ma la necessità di scrivere un codice della convivenza universale, forse si può azzardare a dire una Costituzione del mondo, in realtà ha attraversato per secoli il pensiero occidentale  e non solo quello  per concretizzarsi almeno in parte nel travagliato secolo breve: il sogno wilsoniano del primo dopoguerra di una Società delle Nazioni e poi la faticosa e ancora incompiuta realizzazione delle Nazioni Unite. Una dichiarazione dei diritti, quella del 1948, che rappresenta l’ultima magna charta e per questo la più universale delle affermazioni dei diritti che tradizionalmente costituiscono l’apertura delle costituzioni moderne: nel 1689 la Dichiarazione dei diritti dopo le guerre civili inglesi contiene una prima chiara aspirazione democratica; un secolo dopo è la Rivoluzione francese ad aver ispirato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e la contemporanea Costituzione degli Stati Uniti d’America. Conquiste giuridiche della modernità, anche se alcuni vogliono ricordare anche il Cilindro di Ciro (emanato da Ciro il Grande di Persia nel 539 a.C.) come primo documento sui diritti umani e il Patto dei virtuosi, stipulato da tribù arabe intorno al 590 d.C. come prima alleanza fra popoli basata sul rispetto di principi comuni.Una lunga e complessa genealogia dei diritti umani che come scriveva Jacques Maritain nel 1942  è «un’eredità del pensiero cristiano e del pensiero classico» e non solo della filosofia illuministica che, afferma il filosofo neotomista francese, «finì per distorcerla». Un fil rouge legato al cristianesimo che passa attraverso la lotta per i diritti degli indios dell’America Latina di Fra Bartolomeo de Las Casas e Francisco de Vitoria (secolo XVI) e può risalire fino Tommaso d’Aquino, a Sant’Agostino, ai padri della Chiesa, San Paolo e ancora fino a Cicerone, gli stoici e Sofocle. Ma è soprattutto di fronte alla tragedia dei totalitarismi e del conflitto mondiale che la riflessione trova una spinta decisiva alla riformulazione del diritto internazionale. Una crisi di civiltà che fra il ’40 e il ’45 avvicinò cattolici e protestanti, ma anche liberali e socialdemocratici in un dialogo con altre correnti religiose, fino a superare tradizionali contrapposizioni. La guerra, il nazismo e il comunismo affrettarono pure il superamento delle diffidenze verso l’illuminismo ateo che aveva messo mano a tutte le dichiarazioni dei diritti europee, ma non a quelle americane in cui rimaneva chiaro il riferimento a Dio come fondamento. Per questo, come sintesi di quella rinata attenzione e attualità, il radiomessaggio di Natale di Pio XII nel 1942 invocava la «stella della pace» per «ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio».Una necessità improrogabile, dettata dagli orrori della guerra, e che fece subito inscrivere i diritti dell’uomo e la pace fra i sei articoli della Carta delle Nazioni Unite. Da lì, dopo secoli di attesa, partiva il lavoro del Comitato di stesura: era come se, fra quelle bozze e diverse stesure che la signora Roosevelt passava di mano agli altri delegati, i principi della rivoluzione francese e americana raggiungessero finalmente la dimensione dell’universalità.Un avvio decisivo ma su un sentiero che si è complicato negli anni e confrontato con nuovi scenari. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica sono stati il Concilio Vaticano II ed encicliche come Pacem in Terris oltre al magistero e ai viaggi apostolici di Giovanni Paolo II a definire sempre più come dimensione essenziale della missione della Chiesa la «salvaguardia della dignità trascendente della persona umana» (Gaudium et Spes). E recentemente Benedetto XVI ne ha parlato all’assemblea generale dell’Onu. Ma la velocità e la complessità delle trasformazioni hanno quasi ribaltato l’orizzonte in cui collocare i diritti umani. Il crollo del socialismo reale ha dato per alcuni anni l’illusione della fine della storia: cioè che l’universalizzazione delle democrazie liberali e la legittimazione su scala mondiale dell’economia di mercato avrebbe portato pace e benessere per tutti. Un’illusione svanita simbolicamente l’11 settembre 2001 con l’apparire fulmineo e talora tragico di inediti scenari geopolitici: dal terrorismo internazionale a una globalizzazione economica con nuovi vincitori e nuove vittime mentre si affacciano crisi finanziarie e allarmi ecologici. Un rivolgimento in cui si è tutti immersi mentre è affiorata una nuova percezione della popolazione umana stessa. Il Novecento è stato pure il secolo della decolonizzazione che ha dato cittadinanza, anche nelle relazioni internazionali, a nuovi diritti emancipati dall’influenza occidentale. Un universo che si può simbolicamente riassumere in questi numeri: 6.700 lingue e 7.500 etnie censite fra i 192 Stati delle Nazioni Unite. Il diritto delle minoranze e dei popoli autoctoni  particolarismi, identità nazionali ed etniche  sono infatti una conquista recente rercepita solo a partire dal 1992 dall’Assemblea delle Nazioni Unite. Superata la concezione indubbiamente eurocentrista del 1948, oggi vi è una diversità di cultura da inquadrare. «Si impone una riscrittura», sostiene in un recente saggio il politologo francese Joseph Yacoub, in cui «universalismo e particolarismo non dovranno più essere degli orientamenti antagonisti, che si escludono l’un l’altro». Un’opera collettiva dell’ingegno umano, un mosaico per la pace che affonda le sue radici nella insopprimibile dignità di ogni uomo.